La valle del riscatto afro. Intervista a Edison Mendez






Edison Mendez è un ex calciatore ecuadoriano. Ha giocato per la nazionale dell’Ecuador dal 2000 al 2014, partecipando ai mondiali del 2002, 2006 e 2014. In patria, Mendez è considerato una leggenda del calcio. Ha segnato il goal che ha permesso la prima vittoria della nazionale ecuadoriana in un mondiale, contro la Croazia nel 2002. Con la maglia della Liga di Quito ha vinto un campionato ecuadoriano e una Coppa Sudamericana, equivalente dell’Europa League. È stato campione in America latina, ma anche in Europa, dove ha giocato per tre anni nel PSV di Eindhoven, vincendo due volte il campionato olandese e una Super Coppa d’Olanda. Sempre con il PSV, ha raggiunto un altro traguardo, più personale, essendo il primo calciatore ecuadoriano ad aver segnato un goal in Champions League.
Mendez è nato e cresciuto nella valle del Chota, nella sierra andina, al confine con la Colombia, una zona che presenta peculiari condizioni ambientali e sociali. Questa valle, infatti, è caratterizzata da un clima caldo e secco – un’eccezione al tipico clima andino – ed è abitata in maggioranza da una popolazione di origine africana. Sembra un vero e proprio angolo d’Africa incastonato nelle Ande.
La famiglia di Mendez discende dagli schiavi africani, fatti venire dalla vicina Colombia nel corso del XVII secolo dai Gesuiti spagnoli, per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero e nelle miniere. Oggi, gli abitanti della valle, grazie alla propria cultura “afro”, contribuiscono a rendere l’Ecuador un paese unico e ancora più affascinante, ma allo stesso tempo continuano a dover fare i conti con la discriminazione tuttora presente, e con la diffidenza e la paura suscitate dal colore della propria pelle.
Negli ultimi cinquant’anni, la valle del Chota si è affermata come una delle culle di talenti calcistici più prolifiche del paese. Calciatori come Mendez, originari proprio di questa zona, non sono solo motivo d’orgoglio calcistico per gli abitanti afro-ecuadoriani della valle, ma rappresentano anche un esempio di riscatto sociale e un modello per i più giovani. Mendez si è ritirato dal calcio nel 2015 e noi lo abbiamo incontrato per conoscere meglio la sua storia e cercare di capire cosa significhi il calcio per un campione nato e cresciuto in una delle zone più povere del mondo.
Signor Mendez, in un’intervista disse che per diventare qualcuno bisogna sempre avere fame, e che lei ha avuto fame per tutta la sua vita. Cosa significa esattamente?
“L’ho detto prima del Mondiale del 2006, al tempo giocavo per la Liga di Quito, e l’ho detto con questo significato. Vede, quando una persona esce da un villaggio in cui non si hanno le comodità necessarie per vivere, in cui si riesce a mangiare non più di una volta al giorno, per ottenere dei risultati bisogna avere fame, fame di riuscire, di vincere, e questo è ciò che è successo a me. Il calcio è stato la mia opportunità, mi ha permesso di crescere.”

La Valle del Chota è una delle zone più povere dell’Ecuador, com’è stato crescerci? E cosa è cambiato nel corso del tempo?
“Senza dubbio la popolazione che vive in questa valle è quella che presenta più problemi in Ecuador, a livello economico e a livello sociale. Io me ne andai dalla Valle quando avevo appena 13 anni e vissi fuori per 20 anni, onestamente non ho visto grandi cambiamenti da allora. Sono stati fatti interventi per quanto riguarda l’educazione, ma le problematiche persistono, i ragazzi hanno ancora poche opportunità di studio, l’alimentazione è basilare e ci sono poche opportunità di lavoro. Sicuramente il calcio ha contribuito a migliorare le condizioni di vita di parecchie persone, oggi ci sono più di 50 professionisti. Però solo chi ha l’opportunità di andare via, in città, riesce a migliorare la propria situazione, per le persone che rimangono continua a essere complicato.”

Lei è senza dubbio uno dei giocatori più importanti della storia del suo paese, la sua carriera è il sogno di qualsiasi bambino, figuriamoci per quelli che vivono qui. Cosa ha significato per lei poter rappresentare la sua gente a livello mondiale?
“Ho avuto l’opportunità di diventare un professionista quando ero molto giovane, a 14 anni già giocavo per il Deportivo Quito, poi ho avuto l’opportunità di andare a giocare in Europa, con molta esperienza e due mondiali giocati sulle spalle. Sono rimasto al PSV per diversi anni, volevo rappresentare il mio paese al meglio, ma è stato difficile all’inizio. Volevo essere un esempio per i giovani che mi guardavano da casa e volevo poter lasciare il segno in Europa e dimostrare che anche i giocatori ecuadoriani potessero essere all’altezza di uno dei campionati più importanti. Ho sempre cercato di giocare al meglio, questa è stata la mia missione fin dall’inizio. Rappresentare la mia valle, è stato difficile, perché dovevo essere un esempio tanto dentro, come fuori dal campo, dovevo sapere come comportarmi. A differenza dei miei compagni di squadra non avevo potuto studiare come avrei voluto e non è stato affatto semplice. Però ho avuto la fortuna di incontrare un grande professore di vita come Ronald Koeman (allenatore PSV 2006-2007) che mi insegnò come deve comportarsi un professionista in Europa. Per questo motivo, da quando sono tornato, sto cercando di passare lo stesso messaggio ai miei giocatori, fargli capire che non devono dedicarsi solo al calcio, che devono prima di tutto crescere come persone, comportarsi bene, che devono studiare, che devono porre le basi per il proprio futuro. Io credo che il calcio sia una cosa meravigliosa, ma la cosa più importante è lo studio, perché non tutti riusciranno a diventare dei professionisti.”

Ci ha raccontato dell’esperienza europea dell’Edison Mendez calciatore, ma quale è stata quella dell’Edison Mendez uomo? Come si sente un ragazzino che è riuscito ad arrivare dall’altra parte del mondo? Un mondo in cui calcio significa anche denaro, moltissimo denaro in effetti. 
“Fu assolutamente difficile riuscire ad adattarmi, sono nato e cresciuto in un posto in cui i bambini correvano e giocavano senza scarpe, in cui potevi andare al rio e camminare ovunque senza preoccuparti di nulla. Arrivare in una città con una cultura completamente diversa, in cui devi adattarti velocemente e imparare codici sociali che non conosci, dove ad esempio, per strada, devi prima di tutto rispettare le persone che viaggiano in bicicletta. Fu molto difficile, soprattutto i primi sei mesi, non tanto a livello professionale se non per i rapporti con le persone. Non riuscivo nemmeno a ordinare quello che volevo mangiare davvero, perché non parlavo l’inglese, figuriamoci l’olandese. Mi misi subito a studiare. Quest’esperienza mi aiutò molto a crescere come essere umano. Credo di essere stato intelligente perché da subito cercai di avvicinarmi il più possibile alle persone che ritenevo più in gamba e da loro cercai e riuscii ad imparare molto. Riuscì a legarmi subito a grandi persone come Patrick Kluivert e Phillip Cocu, mi aiutarono ad adattarmi, e mi insegnarono a vivere in un mondo che era completamente differente dal mio.” 
 
A differenza dei suoi colleghi ecuadoriani però, lei è uno dei pochi che è riuscito ad adattarsi così bene. Da cosa crede che derivi questa capacità?
“Senza dubbio da parte della mia famiglia, ovviamente nel Chota crescemmo tutti allo stesso modo, come me Agustin Delgado, Ulises de La Cruz e gli altri giocatori. Ma una persona deve rendersi conto che quando rappresenta un paese deve sapersi comportare. Bisogna seguire una dieta e non si può mangiare quello che si vuole, bisogna arrivare alle partite importanti con serenità e concentrazione, ordinati e ben vestiti, e devi sapere che quando rappresenti un club europeo il tuo comportamento deve essere professionale al 100%.”

Ora che è tornato in Ecuador, qual è il suo impegno nella Valle del Chota?
“Ora sono un allenatore di calcio, ho fondato l’Atletico Valle del Chota. È un progetto che ho pensato soprattutto per l’impatto sociale che può avere. La mia gente ha bisogno di molto aiuto e supporto, e se i miei successi e risultati possono essere messi a loro disposizione, posso aiutarli nel modo che mi riesce meglio, attraverso il calcio. Avrei potuto investire i miei soldi in un’azienda e dare lavoro alle persone che conosco, ma attraverso il calcio io posso insegnare e trasmettere dei valori. Queste persone mi vedono come un esempio, come un uomo che è riuscito partendo dal basso, come un uomo che, così come loro, desiderava aiutare la propria famiglia economicamente e c’è riuscito diventando un professionista. Perciò, insieme alla mia famiglia, abbiamo deciso di aiutare questi ragazzi, che non hanno la possibilità di comprarsi un paio di scarpe per giocare a pallone. Cerchiamo di dargli una dignità attraverso la professionalità, di responsabilizzarli e di farli sentire bene. Stiamo avendo molto successo, siamo riusciti ad arrivare in serie B e ora siamo in testa al campionato. Perciò, più che un tema economico è il tema sociale a spingermi, l’idea di poter aiutare la mia gente e poter, attraverso il calcio, restituire tutto ciò che mi è stato dato durante i miei vent’anni da professionista – ride e abbassa la voce –, ascolta, parliamoci chiaro, la maggior parte di questi ragazzi si stavano perdendo. Iniziavano a fare le amicizie sbagliate, a legarsi a piccole bande criminali (pandillas) e a voler rubare. Attraverso il calcio stanno cambiando, attraverso il calcio li trasformiamo, credimi, funziona. Non riceviamo nessun aiuto, anzi, speriamo con questa intervista di poterci far conoscere e supportare, vorrei contattare i miei vecchi dirigenti del PSV, perché questi ragazzi sono in gamba e attraverso il calcio si può cambiare la cultura e la testa delle persone, motivandole a impegnarsi e a fare meglio.”

Lei ha segnato il primo goal in una vittoria della sua nazionale ad un mondiale, non è una cosa che succede a tutti, che cosa si prova?
“Ora che mi sono ritirato, mi capita di rivedere spesso quel goal, contro la Croazia, lo guardo con mia moglie, con mio figlio, con i miei giocatori, e credimi che prima di andare a giocare il mondiale dissi che avrei segnato un goal e che avrei fatto vincere il mio paese. Ne ero sicuro. Penso che una persona debba sognare e pensare in grande, e quel goal, contro una squadra che nel mondiale precedente si era classificata terza, fu importante per la nostra nazione, soprattutto per l’autostima del suo popolo, che ha vissuto sempre forti problematiche economiche e sociali. Attraverso il calcio abbiamo potuto trasmettere allegria alle persone. Quella partita la guardarono 13 milioni di ecuadoriani (l’80% della popolazione circa), mentre stavamo giocando non ci rendevamo nemmeno conto di quanto felicità stavamo trasmettendo. Famiglie intere, con problemi di ogni tipo, che magari facevano fatica a procurarsi qualcosa di decente da mangiare, per un giorno riscoprirono la dignità di sentirsi ecuadoriani e molte persone si resero conto che quando si vuole fortemente qualcosa, si può ottenere.” 

Credo che al di là della felicità e dell’allegria che siete riusciti a trasmettere voi giocatori, e per voi intendo le persone cresciute nel Chota, siete riusciti a fare qualcosa in più, siete riusciti a dare dignità alla popolazione afro-ecuadoriana, mi corregga se sbaglio.
“Indubbiamente, è stata una lucha, sempre. Prima di quel mondiale eravamo mal visti, messi in disparte, poco considerati. Sicuramente, attraverso il calcio, abbiamo combattuto una lotta interna e attraverso la nostra professionalità quotidiana, siamo riusciti a incidere e a far sì che l’uomo di colore venga rispettato di più. Abbiamo dimostrato che una persona di colore può crescere e scalare le classi sociali, entrando a far parte di quelle più alte. Abbiamo dimostrato che anche noi possiamo contribuire a far crescere il nostro paese – Delgado e De La Cruz furono deputati durante il primo governo di Rafael Correa. Attraverso il calcio abbiamo fatto conoscere il nostro paese e le sue peculiarità all’estero. Io mi ricordo ancora, quando arrivai in Europa, molte persone non sapevano nemmeno dove fosse l’Ecuador, e chi lo conosceva non sapeva che ci potessero vivere delle persone di colore. Segnai il primo goal di un ecuadoriano in Champions League nel 2007 e la gente mi chiedeva da che parte fosse l’Ecuador. Con il calcio abbiamo fatto conoscere al mondo il nostro paese, e credo, che ci siamo riusciti meglio della maggior parte dei nostri politici, perché siamo stati limpidi, onesti, e per questo siamo sereni e soddisfatti.” 

Che significa esser giudicato miglior giocatore in campo contro squadre come il Liverpool e l’Arsenal?
“Fu un onore per me e un’esperienza incredibile, la realizzazione dell’obiettivo che mi ero preposto in realtà. Io non volevo arrivare in Europa e accontentarmi di un buono stipendio, volevo lasciare il segno e riuscire a essere uno dei migliori, nonostante la lingua, nonostante il freddo, i neri non dovrebbero stare al freddo – ride – è stato difficile allenarmi a meno quattro, meno cinque, però ho lottato, mi sono impegnato e per questo ho ottenuto i risultati che inseguivo, e alla fine sono stato giudicato da “France Football” come uno dei 50 giocatori più forti del mondo (candidato al Pallone d’oro) e questo per me è un enorme orgoglio.” 

Qual è stata la partita più importante della sua carriera?
“A livello di nazionale sicuramente la partita contro l’Inghilterra (ottavi di finale del mondiale 2006) perché per la prima volta passammo il girone e potemmo giocarci la possibilità di arrivare a un quarto di finale. Sfortunatamente un goal di David Beckham al settantesimo minuto, spense i nostri sogni, ma senz’altro fu la partita più importante per l’Ecuador. A livello di club fu contro il Liverpool, nel quarto di finale di Champions League, contro la squadra fortissima di Rafa Benítez. Queste sono le due partite più importanti della mia carriera.”

E contro l’Italia?
“Contro l’Italia abbiamo pagato l’inesperienza, fu la nostra prima partita, contro una nazionale che aveva già vinto il mondiale e che sapeva come affrontare una partita di quel livello, ci servì per imparare. La verità è che ciò che conta di più in un mondiale è l’esperienza, e la storia di squadre come quella italiana o inglese fa la differenza sul campo. Perciò, da queste squadre dobbiamo imparare e dobbiamo capire che in futuro dobbiamo diventare come loro, così da poterci giocare le prossime partite alla pari.”


La nazionale ecuadoriana sta vivendo un momento difficile, nonostante ci siano grandi giocatori come Valencia (Manchester United) oggi ci sono meno campioni, cos’è successo?
“A livello nazionale, senza dubbio la qualità del nostro campionato si è abbassata molto. Oggi si corre molto più di quanto si giochi, e questo ti pregiudica, perché abbiamo avuto giocatori di grande qualità che si sono persi nel nostro campionato. Con la nazionale sicuramente è stato molto duro il cambio d’allenatore, pensavamo che sarebbe stato giusto cambiare e che avrebbe fatto bene alla nazionale, ma in realtà ci è costato davvero molto. Valencia ora è il nostro campione, ma non può farcela da solo, abbiamo bisogno di altri professionisti come lui, Jefferson Montero è calato molto negli ultimi anni, Christian Noboa è senza dubbio un’ala con molta qualità, ma ha già 32 anni.”

Crede che sia diminuita nei bambini la voglia di giocare a calcio e d’impegnarsi per ottenere grandi risultati come i suoi?
“Sì, credo che sia cambiato tutto, i bambini ora si distraggono a giocare con il telefono, con la playstation, si nutrono male. I ragazzi oggi pensano più ai soldi che al calcio come sport e divertimento. Noi pensavamo al prestigio prima che ai soldi.”

Signor Mendez, per chi ha tifato ai mondiali?
“Come sempre per l’America latina. Avevo sperato nel Brasile, Argentina e Colombia.”

Un’ultima domanda, secondo lei perché l’Italia non si è qualificata?
“L’Italia aveva una squadra incredibile, probabilmente non sono stati capaci di inserire giovani validi all’interno di quella squadra e al momento del ricambio generazionale è mancato qualcosa.”  

                                                                                            (di Edoardo Costa e Ruben Lagattola)

Commenti

  1. Mi sono davvero colpito dalla storia di Quest'uomo qua. È ovvio che nacere da un posto come valle del chota che io parsonalmente non conosco bene però da quello che ho letto dal intervista, vuole dire nacere in Africa in un posto molto povero forse quello del Africa è meno difficile perché non ci sarà la discriminazione per questione di colore della pelle ma nonostante essendo un popolo sottovalutato lui è riuscito a trasmettere un valore molto importante non soltanto per Ecuador ma per il suo popolo. Insegnandoli che nonostante suo successo nel mondo di calcio che il calcio è importante ma la cosa più importante è lo studio. Ecco perché mi piace la sua concezione della vitá perché anch'io credo tanto che si può ottenere il cambiamento attraverso la scuola, ma solo se tutti hanno la possibilità di andare a scuola.. una cosa che mi piace è il nome "Afro" che usano mi è piaciuto molto...complimenti grande Edo con il tuo compagno sono fiero di te e lo sarò per sempre

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