"Fieramente ribelli" - Intervista a Paolo Sollier - prima parte

Oggi vi presentiamo sul nostro blog la prima parte della lunga intervista esclusiva a Paolo Sollier, scrittore ed ex calciatore, noto per la generosità sui campi da gioco (ha militato in serie A con il Perugia a metà degli anni settanta) e per una passione politica e civile che ha sempre rivendicato con orgoglio. Gli poniamo alcune domande perché, tra le altre cose, vorremmo capire con lui il nesso che non di rado ha legato lo sport, e il calcio in particolare, alla politica. Iniziamo. Quando e come è nata la tua passione per il calcio e quali erano i tuoi idoli allora? 
"La passione è nata col divertimento che veniva dal giocare a pallone. Allora non esistevano scuole calcio e, almeno fino ai 12 anni, ogni gruppo di ragazzini si gestiva per conto proprio, con qualche appoggio nell'oratorio. Così si disegnavano campetti ovunque fosse possibile, usando la fantasia organizzativa e il talento che deriva dall'entusiasmo. Ricordo una porzione di prato dietro una cascina, nella periferia di Torino, che, con porte sbilenche, era diventato lo stadio di sfide memorabili. Eravamo svegli e disinibiti, gonfiavamo il pallone sgonfiando le gomme dei camion parcheggiati. Lì venni notato da Matteo Dalla Riva, che mi chiese di tesserarmi per il Vanchiglia. Curiosamente, quel giorno giocavo in porta e chissà quale misterioso intuito lo portò a capire che in uno scarso portiere si celava un discreto centrocampista. Il mio idolo fu e sempre sarà Omar Sivori. L'indelebile ammirazione nacque assistendo a una partita amichevole in notturna tra Juventus e Arsenal, la squadra in cui giocava, nel ruolo di stopper, Mel Charles, fratello di John, centravanti bianconero, per un duello familiare in marcatura diretta. Furono botte da orbi tra due formidabili atleti, al limite del fratricidio a ogni contrasto, ma con una lealtà quasi provocatoria. Ricordo che a un certo punto Sivori puntò l'area in diagonale, da destra a sinistra, affiancato da due colossali difensori inglesi che, correndogli di fianco, lo presero letteralmente sottobraccio, sollevandolo da terra: a quel punto, Omar sfiorò la palla col suo sinistro magico, infilandola sul palo opposto, una meraviglia."

Che ricordi hai del calcio degli anni settanta e che cosa era il tifo in quegli anni? Immagino molto diverso da oggi... E poi volevo anche chiederti se in quel calcio, un calcio che tu hai vissuto da protagonista, sei mai venuto a contatto (anche indirettamente, attraverso compagni o avversari) con episodi di doping, combine o altre "storture sportive". 
"Il calcio di quegli anni era ovviamente molto diverso, ha subito delle accelerazioni che ne hanno cambiato profondamente anima, spirito e realtà, a partire dal campo per finire ai tifosi e all'intera organizzazione. Grazie ai metodi di allenamento e al relativo miglioramento della fisicità, il gioco odierno è molto più veloce, a volte nevrotico, inoltre l’evoluzione tattica, con l’accorciamento delle squadre e la continua pressione sull’avversario, ha reso più difficile l’azione offensiva. Per questo credo che i campioni di oggi siano più bravi di quelli del passato, visto che devono esprimere il loro talento a grande velocità e, ovviamente, andando più forte, migliori devono essere la tecnica nel controllo di palla e l’abilità nello svincolarsi da marcature soffocanti. Naturalmente, per stabilire un vero paragone tra campioni di diversi periodi, bisognerebbe poter verificare il rendimento dei giocatori di ieri allenati con gli stessi metodi di quelli attuali.
Nel tifo, cominciavano allora a nascere e a imporsi i primi gruppi ultrà, che hanno in seguito monopolizzato il sostegno alle loro squadre e radicalizzato le contrapposizioni, anche politiche. Il mondo del tifo organizzato ha il merito di essere una delle ultime forme di aggregazione in grado di mobilitare le persone: oggi sono in crisi i partiti, i sindacati, le associazioni, insomma quasi tutte le strutture che tenevano insieme la gente attraverso uno o più obiettivi comuni. Adesso solo le curve sono in buona salute e cariche di energia. Si tratta naturalmente di capire come venga usata questa energia - al di là della passione sportiva - se per scontri con gli avversari e devastazioni varie, oppure in funzione di un qualche impegno sociale al servizio della propria comunità o per la realizzazione di progetti extrasportivi: in qualche caso succede, ma nella maggior parte no. In occasione di incontri pubblici ne ho discusso con alcuni di loro, ma senza apprezzabili risultati.
Riguardo al doping, ho avuto la fortuna di incontrare allenatori, medici e massaggiatori responsabili, che non hanno mai promosso aggiustamenti chimici. Se vogliamo, l’unico caso che poteva prestarsi al sospetto è quanto accadde a Rimini con l’arrivo di Helenio Herrera, subentrato a Meucci in corso d’opera. In occasione del suo esordio, appena arrivati allo stadio, il massaggiatore Lamberto Soci avvisò la truppa che il mago ci aspettava, uno alla volta, in uno stanzino del Romeo Neri. Incuriositi, ma soprattutto intimoriti dalla sua autorevolezza, ci mettemmo disciplinatamente in fila. Quando toccò a me, ebbi la sensazione di una cerimonia esoterica: Herrera stava in piedi al centro della stanza, con un bicchierino in una mano e una pastiglia tra le dita dell’altra. Sembrava davvero un sacerdote, pronto a officiare una comunione misteriosa. La sua raccomandazione, guardandomi negli occhi, fu di masticare la pastiglia e di inghiottirla immediatamente con un sorso di caffè. Si scoprì poi che si trattava di un’aspirina che, secondo lui, doveva servire ad allentare la tensione e attenuare tutta una serie di dolorini muscolari e articolari. Onestamente, nessuno di noi, pur sospettosi, si accorse dei benefici promessi. In ogni caso, alla seconda partita, pure in grande soggezione, gli dissi chiaramente che non mi sentivo di assumere alcuna sostanza, pratica cui ero contrario per principio. Allora il mago acuì lo sguardo e catturò uno dei suoi silenzi inquietanti, poi, con quel suo strano idioma che mescolava spagnolo, francese e italiano, emanò la sentenza: 'Si tu non vuole, tu non la prende, claro!' Lasciai lo stanzino sorridendo, e fu l’inizio di uno splendido rapporto con lui.
Sulle altre faccende, ne so quanto è stato scritto sui giornali o nelle sentenze giudiziarie. Certo, ho sentito, come tutti, tante chiacchiere, ma sono abituato a confrontarmi con i fatti, dunque aggiungerei solo scontate banalità."


E per quanto riguarda i mondiali? Quali sono state le nazionali e i calciatori che ricordi con maggiore piacere? 
"Per me e, credo per tutti quelli della mia generazione, il ricordo indelebile resta quello del 4 a 3 alla Germania Ovest durante i mondiali del 1970, in Messico. Non a caso, dopo aver assistito alla diretta televisiva, scesero tutti in piazza per festeggiare. Fu un impulso irresistibile quello che mi trascinò in strada, quando normalmente ero abbastanza indifferente verso questi impeti nazionalpopolari. Ricordo anche di aver ammirato molto, più che i campioni, i maestri di fatica, come Angelo Domenghini e Marco Bertini, che, qualche anno dopo, ritrovai piacevolmente copme compagno di squadra a Rimini, in serie B. Per quanto riguarda altri singoli, rimasi invece molto impressionato da Deyna, centrocampista polacco nel mondiale del 1974. Probabilmente rimasi colpito dalla sua capacità di essere centrocampista di riferimento, con grande personalità organizzativa, sicurezza quasi sprezzante unito a un rassicurante senso tattico, elementi in antitesi col mio "centrocampismo" di agonista irrazionale. Per quanto riguarda i molti campioni che mi hanno divertito e meravigliato, scatenando in me un'invidia senza vergogna, ne scelgo due: Platini e Ibrahimović, probabilmente non i migliori, ma quelli che, per una strana congiunzione astrale, sono diventati incisioni rupestri nella mia testa dura. Il primo per l'alta capacità realizzativa e la naturalezza, quasi la semplicità irridente, della sua tessitura di gioco, e poi anche per quel fisico indolente che appariva inadatto alle magie che produceva. Il secondo invece lo scelgo per la potenza che sprigionava, la cattiveria spregiudicata da malvivente dell'area di rigore, e quella forza muscolare, a volte scoordinata, al servizio di finezze tecniche impensabili." [CONTINUA...] (intervista di Gianni Tarquini) 

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