"Molte storie ignorate" - Intervista a Paolo Sollier - seconda parte

Proseguiamo proponendo la seconda parte dell'intervista a Paolo Sollier, con una serie di domande che ci portano fino alla situazione politica attuale. 

Quando hai cominciato a impegnarti nel sociale e poi durante tutta la tua carriera di giocatore hai trovato nel calcio, o nello sport più in generale, spunti e personaggi che potevano rappresentare esempi positivi per la costruzione di un mondo meno ingiusto?
"I personaggi esemplari c’erano o c’erano stati, solo che non li conoscevo. Ai tempi, l’unico messaggio che uscì dal mondo dello sport fu quello dal podio olimpico messicano di Smith e Carlos col loro pugno chiuso a difesa dei diritti dei neri americani e, più in generale, per rivendicare una società più giusta e solidale. Dunque l’impegno politico fu per me staccato dall’ambiente sportivo che, tra l’altro, specie a sinistra, era considerato una specie di sistema arretrato, culturalmente primitivo e poco degno di attenzione. Il mio percorso personale fu invece stimolato alla ricerca di conoscenza dall’attivismo nel volontariato tra i cattolici del dissenso: quella fu una vera scuola politica, che ci spinse a studiare i fenomeni che attraversavano la società e la natura profonda delle ingiustizie sociali, portando gran parte del nostro gruppo a scegliere, in seguito, l’appartenenza alla sinistra più o meno radicale.
Qualche anno dopo, progressivamente, sono venuto conoscenza di molte storie prima ignorate. Quelle di calciatori e allenatori perseguitati da fascismo e nazismo, oppure di altri fieramente ribelli durante le dittature sudamericane, e anche di alcuni e alcune che hanno lottato nella moderna Europa, le cui esperienze sono però quasi silenziate dall’informazione ufficiale.
Voglio brevemente ricordarne alcuni, le cui storie andrebbero studiate a scuola, per capire quanti destini sono stati sacrificati da immondi regimi e come la libertà sia sempre in pericolo, non appena si attenuano democrazia e partecipazione

- Árpád Weisz è conosciuto come uno dei più grandi tecnici della storia: in Italia vinse tre campionati, uno con l’Inter e due col Bologna, transitando anche sulle panchine di Alessandria, Bari e Novara. Dopo la promulgazioni delle leggi razziali, fu costretto a rifugiarsi in Olanda, dove allenò il Dordrecth. Con l’aggravarsi della situazione in Europa e l’allargamento del domino tedesco, il destino di Árpád e della sua famiglia fu segnato e, dopo essere stati arrestati dalla Gestapo il 2 agosto del 1942, finirono nella camera a gas di Auschwitz il 7 di ottobre, in quanto ebrei da eliminare.

- Matthias Sindelar è stato uno dei più grandi calciatori europei, forse il migliore della sua epoca, nonostante un fisico impiegatizio che lo faceva soprannominare “cartavelina”. La sua tecnica era però impeccabile e fantasiosa, tanto che il suo tocco era definito qualcosa di musicale. In quel periodo, siamo negli anni trenta, l’Austria era forse la migliore nazionale in circolazione, alla pari degli inglesi che però, per la loro supponenza, si rifiutavano di affrontare le altre squadre europee. E Sindelar era così famoso che fu tra i primi testimonial pubblicitari. Tra l’altro, pare che il tiro a giro, di interno collo sull’angolo opposto, fosse stato proprio inventato da lui. Erano gli anni dell’Anschluss, l’annessione dell’Austria alla Germania di Hitler, con conseguente fusione delle due nazionali calcistiche. Per celebrare lo storico avvenimento, fu organizzata l’ultima sfida tra le due squadre. Vinse l’Austria, imponendosi all'avversario in modo quasi sprezzante, e l’unico gol lo segnò naturalmente Sindelar. A fine partita, gli atleti si schierarono a centrocampo, esibendo il saluto nazista. Tutti tranne Sindelar e Shasti Sesta. In seguito, Sindelar rifiutò la convocazione nella nazionale tedesca, non riconoscendosi in quella scelta. Il 23 gennaio 1939 fu trovato morto nel suo appartamento insieme alla sua compagna ebrea, Camilla Castagnola, che gli sopravvisse in ospedale per tre giorni. Non fu mai fatta l’autopsia e i corpi vennero cremati in fretta e furia, tanto che il mistero su quanto accaduto dura ancora oggi.

- Ernest Erbstein ebbe una lunga carriera di allenatore, culminata poi con i successi del grande Torino. Prima, però, dovette anche lui attraversare tutte le minacce fascio-naziste. Con l’aiuto della dirigenza del Torino riuscì a rifugiarsi in Ungheria e poi, nell’ultimo periodo di guerra, a trovare protezione nell’ambasciata svedese di Budapest. Alla fine del conflitto, tornò sulla panchina torinese, contribuendo alla leggenda di una squadra irripetibile. Purtroppo la sua vita si concluse con la tragedia di Superga, nello schianto aereo del 4 maggio 1949.

Ci sono anche altri sportivi a cui le cose sono andate un po’ meglio, ma fa riflettere che, avvicinandosi ai giorni nostri, l’orrore delle dittature sembra tenda a rigenerarsi.

- Rachid Mekhloufi è tuttora vivente, è algerino, e oggi può esserlo. Alla fine degli anni cinquanta, il suo paese era però ancora una colonia della Francia, tanto che lui era nel giro della nazionale transalpina. Ma prima, durante l’infanzia, aveva assistito nel suo paese a molti episodi cruenti: l’esercito francese fu spietato nella repressione delle prime manifestazioni per l’indipendenza del popolo algerino. Ci furono scontri duri e molte vittime. In seguito, la sua famiglia emigrò in Francia e lui cominciò a giocare, diventando presto un abile centrocampista. Nel 1957 fece parte della nazionale militare che si aggiudicò i mondiali militari (e sì, c’erano anche questi…) in Argentina. Sempre in quell’anno, vinse il il campionato con il Saint-Etienne.
Nel 1958, in procinto di essere convocato per i campionati mondiali (quelli veri) in Svezia, poi vinti dal Brasile di Pelé, Rachid scomparve. E non solo lui: altri 11 giocatori algerini sparirono dalla scena per ricomparire in Algeria, qualche giorno dopo, attraverso trasferimenti segreti. Era un piano organizzato da Mohamed Bouzmezrag: l’idea era quella di costruire una squadra algerina per appoggiare il Fronte di Liberazione Nazionale. Fu organizzato un tour mondiale per giocare tutta una serie di partite amichevoli. Quella squadra non era ovviamente riconosciuta dalla Fifa (la federazione internazionale), ma portò il suo contributo alla lotta per l’indipendenza. Dopo averla ottenuta, Mekhloufi fece ritorno in Europa, militando un anno nel Servette, in Svizzera. In seguito, tornò al Saint-Etienne, allora in seconda divisione. Furono subito promossi, vincendo poi altri tre campionati. Mekhloufi ricorda spesso il suo nuovo esordio transalpino, confessando l’ansia che provata in quei momenti, svanita in un applauso alla sua prima giocata importante: dribbling e assist per un gol. Terminò la sua carriera nel Bastia, dove diede inizio anche a quella di allenatore, diventando poi commissario della nazionale algerina. Oggi è giustamente orgoglioso di essere stato un rivoluzionario che ha lottato per l’indipendenza del suo paese.

- Carlos Humberto Caszely è stato uno dei più grandi campioni del Colo-Colo, squadra della prima divisione cilena, e terzo marcatore di sempre della nazionale, conosciuto dai tifosi come “el rey del metro quadrado”, perché inarrestabile nello spazio breve dove faceva valere il suo baricentro basso, piedi buonissimi e muscoli esplosivi. Dopo il golpe dell’11 settembre del 1973, in Cile si insediò la giunta militare e il Colo-Colo, replicando un “adeguamento” praticato da molti club sudamericani in presenza di dittature, dichiarò Pinochet presidente onorario della squadra. Il clima non era dunque più favorevole per Caszely, vicino al partito comunista cileno, che si trasferì in Spagna, al Levante, continuando però a giocare nella nazionale cilena. In occasione di una partita per la qualificazione dei mondiali 1974, Pinochet fece vista alla squadra e Carlos fu l’unico a non stringergli la mano, evidenziando il suo fermo dissenso al regime. Non era facile, negli anni in cui gli oppositori venivano gettati in mare dagli aerei o finivano nello stadio lager di Santiago per essere torturati e fatti fuori, come accadde a Víctor Jara, cui gli aguzzini spezzarono anche le dita, invitandolo poi sadicamente a suonare per loro prima di ucciderlo. Caszely era ovviamente protetto dalla sua fama e dal fatto di giocare in Spagna. Nel 1975 ottenne la doppia nazionalità e divenne naturalizzato spagnolo. Giocò tra l’altro in una selezione catalana (sembra di essere a oggi…) impegnata in un’amichevole contro la Russia, insieme ad altri stranieri, come Cruijff e Neeskens. Nel 1979 fu premiato come il miglior giocatore della Coppa America. In seguito, nel 1983, fu escluso dalla nazionale per un veto del regime e, guarda caso, il Cile non si qualificò per i mondiali in Argentina.
La sua partita di addio, nel 1985, col Colo-Colo contro una squadra di stelle sudamericane, si trasformò in un atto politico contro la dittatura. Nel 1988, in occasione del referendum, accettato dai generali, per decidere se legittimare ancora la giunta militare o aprire un processo democratico, Caszely partecipò alla campagna elettorale, insieme alla madre, che denunciò pubblicamente le torture e gli abusi di cui era stata vittima. Pinochet fu sconfitto nelle urne col 56% dei voti il 5 ottobre 1988. Carlos studiò poi giornalismo e lavorò infine per la televisione. Ricorda spesso con orgoglio quanto gli disse, tanto tempo prima, un minatore : 'Carlito, tu sei la nostra voce'. 

- Le sorelle Döller e Irene Muller giocavano nell’Hellas Kaghan, squadra femminile austriaca. Nella primavera del 2007, alla presidenza della squadra, sostituendo il socialdemocratico Paul Rapp, arrivò Martin Graf, politico di estrema destra, appartenente alla fratellanza Olimpia, organizzazione vicina al neonazismo. In poco tempo, le tre giocatrici si ribellarono al loro presidente, accusandolo di razzismo e sessismo, inoltre di voler utilizzare la squadra per la sua propaganda politica.. Naturalmente furono licenziate, insieme a Joseff Bittterman, allenatore delle giovanili, che le aveva appoggiate. Ci fu anche un episodio curioso. La squadra under 18 del F.C. Mauer, in occasione di una partita contro l’Hellas Kagram, indossò, durante il riscaldamento, delle magliette con scritte a sostegno delle tre giocatrici e fu, paradossalmente, multata per comportamento non regolamentare. Le tra calciatrici, per nulla arrese, organizzarono a Vienna un torneo di calcio contro il razzismo che ebbe un successo straordinario. Irene Muller, Lucia e Margarita Döller furono velocemente ingaggiate dalla squadra F.C. Stadium, rivale storica dell’Hellas Kagram, di cui Martin Graf continua a essere presidente.

La vicenda delle giocatrici austriache mette in luce qualcosa cui non si dedica troppa attenzione, ma che segnala convinzioni e comportamenti sempre più inaccettabili. Visto che il linguaggio è sempre la spia delle nostre posizioni umane, culturali e politiche, sarebbe utile riflettere su parole che, purtroppo, sento spesso ripetere e che veicolano un concetto offensivo, ma che continua imperterrito a prosperare, trasversale a tutte le appartenenze politiche. Le frasi, conosciutissime, sono sempre le stesse: “ecco uno coi coglioni”, oppure “quello ha gli attributi”. Oppure, addirittura, “quella ha gli attributi”, oppure “ecco una coi coglioni”. O anche “quella è una cazzuta”. Concetti a volte espressi anche da donne. Ora, che il carattere, il coraggio, la convinzione, la bravura, la coerenza, la forza morale, la determinazione siano merito di due ammennicoli penduli e di un salsicciotto inaffidabile, escludendo da queste doti tutto il mondo femminile, è una fake news secolare che sarebbe ora di ridurre alla ragione. Altrimenti il maschilismo patriarcale e oltraggioso continuerà a dominare e fare danni, allontanando impunemente la reale parità di genere, unica via d’uscita dall’apartheid umano e culturale."


Com'è cambiato il calcio da quando l'hai lasciato tu e come lo trovi oggi? Cosa ti manca? Si è conservato qualcosa dello spirito più autentico e profondo di questo sport? Se potessi cambiare il calcio oggi cosa faresti?
"Sono uno dei nostalgici delle giornate di campionato con tutte le partite in contemporanea, che trasmettevano le istantanee emozioni di sorpassi e distacchi. Senza anticipi, posticipi e rimandi dei conti. Purtroppo, con l’avvento delle pay tv, e del relativo denaro circolante, sarà impossibile tornare indietro, anzi, si può ancora peggiorare... In ogni caso, gli stadi così spesso vuoti sono comunque tristi e il tifo, ultrà a parte, sembra diventato un affare privato, da esprimere tra le mura di casa o al bar, e questo toglie molto al fascino del pallone. Per il resto, cioè tutto ciò che riguarda i meccanismi di governo in Federazione e Lega, se persone in gamba come Enzo Ulivieri e Damiano Tommasi non sono riusciti a evitare il commissariamento, non sono certo io a poter dare suggerimenti. Quello che mi piacerebbe vedere è un incremento dell’opportunità calcistica per le donne e mi sembra che l’obbligo per le squadre di A e B di avere anche le squadre femminili sia un decisivo passo avanti. Vorrei anche che nei settori giovanili si ritrovasse un po’ quella giocosità tanto necessaria nei primi approcci con questo sport. Inoltre, sarebbe il momento, per dirigenti e allenatori, di liberarsi dell’ansia da risultato che, oltre ad essere diseducativa, stressa i ragazzi e ne 'strapazza' l’immaginario. Infine, sarebbe bello riuscire ad arginare il 'campionismo' dei genitori. Sono fiero del fatto che nella sede del Vanchiglia, a Torino, dove ho cominciato a giocare (più di mezzo secolo fa ormai...), sia esposto un cartello con scritto: 'Se pensate che vostro figlio sia un campione, non portatelo da noi'. Poche parole che sono un manifesto di apertura mentale e filosofia sportiva".

A questo punto vorrei chiederti un piccolo bilancio della tua esperienza da allenatore e inoltre, riallacciandomi a quanto hai appena detto, volevo chiederti un giudizio sull'evoluzione del calcio dilettantistico e sul modo in cui i bambini iniziano il percorso verso il professionismo.
"Speravo che l’esperienza in panchina replicasse quella in campo: partenza dal basso e progressiva ascesa verso le parti alte di questo sport. Non è andata così e ne sono molto deluso. Evidentemente non avevo il talento necessario. Considero quindi la carriera di allenatore un fallimento professionale, anche se molto gratificante sul piano dei rapporti umani e dell’incontro con vere passioni sportive, anche se marginali e periferiche. Ho conosciuto infatti giocatori e dirigenti che hanno decisamente arricchito il mio bagaglio umano e ai quali sono grato. Il settore dilettantistico, forse perché distante dalla potenza economica di quello professionistico, conserva ancora molti dei valori che accompagnano la magia irriducibile di questo gioco. Sono momenti in cui il mondo conosce ribaltamenti in ogni settore e il calcio non fa eccezione. Quello che mi colpisce di più è l’approccio iniziale alla 'materia', nei settori giovanili. Diversamente da quanto accadeva alle generazioni precedenti, oggi l’accesso alla pratica sportiva, qualunque essa sia, non avviene attraverso il gioco infantile, dunque il divertimento, con le sue indefinibili e indefinite autogestioni, ma parte immediatamente dalle scuole calcio (o pallacanestro, rugby, pallavolo eccetera). Insomma, devi iscriverti a una qualche società: questo significa che qualcuno ti guida nell'esercitare quello sport, e questo già ti chiude in uno schema e in una gerarchia. Quanto questo tolga alla naturalezza e alla fantasia, magari con un miglioramento anticipato della tecnica, lo studieranno sociologi e forse psicoterapeuti, ma è un segno dei tempi irreversibile e diffuso in ogni campo. Chi avrebbe pensato, qualche tempo fa alle scuole di scrittura? Eppure sono nate, funzionano e sono anche simpatiche. È però un accesso diverso, proprio perché programmato, alla meraviglia dello scrivere e allo stupore di sentirsene capaci. Avremo scrittori migliori? Difficile dirlo, ma preferisco ancora il vecchio percorso, quello che si addentra nel sottobosco dei dubbi.
Per tornare al rapporto controverso col ruolo di allenatore, non posso negarmi una accenno alla panchina parallela che ho frequentato, quella dell’Osvaldo Soriano Football Club, la nazionale degli scrittori. A parte che allenavo e giocavo pure, quella è stata invece un’esperienza formidabile, dove ogni volta non sapevi cosa avresti trovato, nel bene e nel male, ma eri cosciente del fatto che non l’avresti mai dimenticato. Intanto, quasi tutti i 'soriani' vivevano una specie di rivincita: una nuova occasione nel calcio con cui, da ragazzi, evidentemente non si erano capiti. E quindi la ricerca in campo dei dribbling perduti, delle sponde sognate, dei goals invidiati, delle parate allucinogene e delle 'sbroccature' artistiche. Dunque un ambiente sempre provocatorio e imprevedibile. Inoltre, giocando coi pari europei, ogni volta ci sono sempre stati eventi culturali in cui sdoppiarsi e avventurarsi.
Personalmente ricordo di aver ammorbato la nostra mailing list per alcuni anni con le cronache bizzarre degli incontri disputati dalle mia squadre 'ufficiali' nel campionato di Eccellenza piemontese. Ma col trucco di raccontare le partite come fossero giocate da una formazione coi nomi dei soriani, rispettando rigorosamente i ruoli e facendoli così esordire in un campionato non esattamente alla loro portata (salvo rare eccezioni...). Era comunque un clima surreale, dove, ad esempio, qualcuno di loro si incazzava se nella partita per procura veniva escluso dalla scelta iniziale oppure se un compagno non gli passava la palla immaginaria. Una bella atmosfera, talmente letteraria da sembrare vera.
Da qualche anno, allenatore dell’Osvaldo Soriano è Francesco Trento, che ha conseguito migliori risultati dei miei, tanto per cambiare…"

A parte quelle interessantissime che ci hai raccontato prima, nella tua storia personale hai conosciuto o saputo di giocatori che siano stati davvero capaci di lottare per grandi cause fuori dal campo?
"Non era certo una gran causa, ma con qualcuno avevamo ipotizzato di far nascere una versione del sindacato schierato apertamente a sinistra e pronto a lottare su vari temi sociali, contribuendo in qualche modo a costruire una società più equa e solidale. Non funzionò. Furono coinvolti, su iniziativa di Enzo Belforte, giornalista di 'Tuttosport', Maurizio Codogno (la prima riunione fu in casa sua, a Terni), Andrea Mitri, Gabriele Ratti, Ezio Galasso, Maurizio Montesi, Dino Pagliari, Ezio Blangero, Luciano Cesini e Pino Lazzaro. La proposta di concordare un percorso comune con le altre forze sindacali in appoggio a varie iniziative politiche e sociali, essendo in grado di raggiungere un vasto bacino di interesse, non fu accolta dall’Associazione Calciatori. Anche noi però ci credevamo poco, infatti ognuno riprese la propria strada personale, forse anche con un sospiro di sollievo…"

Come vedi la situazione politica italiana di oggi? Pensi abbia ancora senso parlare di “impegno” e, se sì, in che modo?
"L’impegno è sempre più necessario perché ho l’impressione che il mondo stia tornando indietro, dunque bisogna rispondere. Ovviamente, per analizzare quanto sta succedendo sarebbero necessari approfondimenti corposi, ma alcuni punti sono comunque chiari. Intanto sono tornati in discussione diritti che sembravano acquisiti per sempre, soprattutto nel mondo del lavoro: raccontandola alla grossa, credo che ciò sia dovuto al cedimento delle forze progressiste, che si sono illuse di orientare il capitale da sinistra. Intanto, attraverso un percorso sotto traccia, ma inesorabile, la finanza ha preso il dominio sull’economia e sulla politica. Per individuarne l’atto iniziale, credo sia necessario andare al momento in cui è stata eliminata al distinzione tra banche di deposito e banche d’affari, introdotta negli Stati Uniti per contrastare la crisi del 1929 (Glass-Steagall Act, 1934, voluta da Franklin Delano Roosevelt). Questa riforma fu preparata dai repubblicani e portata a termine dal democratico Bill Clinton nel 1999. Da quel momento, nulla è più stato come prima, con la marea montante di mutui subprime, derivati e altre porcherie finanziarie. In questo modo è entrata in crisi l’economia: perché investire sul lavoro se si possono fare i soldi coi soldi, attraverso maneggi sconosciuti ai più e difficilmente controllabili? Così, nel tempo della globalizzazione, è diventato secondario anche il ruolo della politica, costretta a rincorrere le crisi che si avvicendano e a cercare soluzioni tampone, attraverso provvedimenti di austerità e randellando il welfare. Se aggiungiamo la letale 'terza via' di Toni Blair, guerrafondaio di menzogne, si può capire come la sinistra di governo (ultima formula del travestimento) abbia davvero perso la strada di casa e si aggiri confusa nella pericolosa prateria evocata dalle teorie di Milton Friedman: il mercato come unico regolatore dell’economia, e che lo Stato non rompa le palle! Qualcosa di molto distante dalla storia di lotta dalla parte opposta, patrimonio dei vari partiti comunisti. Quando sento i dirigenti del Pd invocare la privatizzazione di più o meno tutto e la realizzazione di grandi opere inutili come soluzione degli attuali problemi economici, mi chiedo che fine abbia fatto una visione realmente alternativa e quanto sia stata svilita l'idea di equità sociale. Dopo i troppi compromessi, i 'sinistri' di governo (definizione quanto mai calzante) dovrebbero fare ammenda, riconoscere la loro responsabilità e accorgersi definitivamente che, proprio perchè il capitale non fa prigionieri e aumenta i profitti, l’errore di posizionamento è stato imperdonabile.
Suggerirei anche, per alleggerire un po’, l’ascolto di una bella canzone della Casa del Vento, 'Loi du marché', con un ritornello inflessibile: 'n’est pas la loi de marché / qui fairà ma liberté, / non ci arrenderemo mai / a un futuro che non c’è'.
Detto questo, mi spiace per chi si riempie la bocca con la storia del voto utile (che normalmente porta a maggioranze inutili e dannose) e si sbraccia contro la frammentazione della sinistra, magari dopo averla provocata. Io voterò allora Potere al Popolo. Il modo rocambolesco in cui è nato il progetto, l’energia e il dinamismo, che hanno permesso di raggiungere quasi il doppio delle firme necessarie per presentarsi alle elezioni, fanno ben sperare. Chissà che non sia l’inizio di una nuova, necessaria, assunzione di coscienza delle generazioni più giovani, capace di spingerle a prendere finalmente in mano il proprio destino precario, invece di delegarlo a chi ci ha condotti al disastro attuale. Sarebbe il primo passo per rendere nuovamente il futuro un’apertura verso delle possibilità invece che una minaccia". (intervista di Gianni Tarquini)
[Le storie particolareggiate di Sindelar, Weisz ed Erbstein, insieme ad alcune altre, si trovano su un numero speciale si A/rivista anarchica, intitolato La svastica allo stadio. Gli articoli sono scritti e curati da Giovanni A. Cerutti, direttore dell’Istituto Storico della Resistenza di Novara; altre storie interessanti qui raccontate, come quella di Caszely e di Mekhloufi, sono riportate nel libro Calciatori di sinistra di Quique Peinado].

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