Che Guevara e il calcio



Inauguriamo il nostro blog con uno scritto del giornalista Darwin Pastorin che ci racconta del rapporto tra Ernesto Che Guevara e il calcio. Il testo, redatto come una lettera, è apparso quest'anno in forma completa nel libro Io e il Che, edito da Nova Delphi:


Caro Ernesto Che Guevara,
mi piace l’idea di scriverti una lettera, così come si faceva una volta. (...) Piansi molto, avevo dodici anni, in quell’ottobre del 1967. Ma non per te, non offenderti: non ti conoscevo ancora. Era il 15 di ottobre, non il 9. Scoppiai in lacrime quando arrivò la notizia: di voce in voce, di finestra in finestra, di dolore in dolore: per la fine tragica della “farfalla granata”, che si chiamava Gigi Meroni, giocava al calcio ed era l’ala destra del Torino. Ala destra come Mané Garrincha e Pier Paolo Pasolini. Io tifavo per la Juventus, ma mi piaceva da impazzire quel giocatore che, con i suoi dribbling e la sua fantasia, mi ricordava i funamboli della mia infanzia a San Paolo del Brasile. Venne investito da un’auto, mentre attraversava corso Re Umberto con il suo compagno di squadra, il difensore Fabrizio Poletti. Se ne andava, mi devi credere, un rivoluzionario del pallone: capelli lunghi, calzettoni arrotolati alle caviglie, trasformò un pallone, un semplice pallone, in poesia. Lui: che parlava di libertà, che si innamorò di Cristiana la ragazza del luna-park; lui, che passeggiava sotto i portici del centro storico torinese con una gallina al guinzaglio. Portò, nel prato verde, l’immaginazione, l’imprevedibilità, la bellezza. Enrico Deaglio disse che la sua morte anticipò, in Italia, il ’68.
Anche tu, querido Ernesto, giocavi al football. Facevi il portiere, che è il ruolo, decisamente, più romantico. Perché a stare in porta sono soltanto i pazzi e gli artisti. E ti piaceva ricordare una partita a Leticia, capoluogo del dipartimento colombiano di Amazonas. “Fu lì - scrivesti - che parai un rigore che sarebbe rimasto nella storia di quella città”. Alberto Granado, il tuo compagno di avventura in motocicletta per il continente latinoamericano, si esibiva a centrocampo e assomigliava al campione argentino, argentino come voi, Pedernera, per via di quei suoi passaggi millimetrici.
Non solo, in quei giorni epici, andaste pure a Bogotà, per conoscere il vostro idolo: l’immenso Alfredo Di Stefano, che offriva meraviglie e gol con la maglia del Millonarios. Il fuoriclasse, molti anni dopo, nel pieno della sua gloria al Real Madrid, risponderà a chi gli rammentava quell’episodio e quel giovane studente di medicina: “Davvero non immaginavo di trovarmi davanti a un mito nascente”.
Entrasti nella mia vita, come il Che, nel 1969, al mio primo anno di liceo, quando la politica cominciò a scandire i tempi delle mie giornate e dei miei furori e della mia utopia. Fu un compagno più grande, uno che suonava la chitarra benissimo, soprattutto le canzoni di Francesco Guccini, a narrarmi delle tue imprese, del tuo coraggio, del tuo assassinio nella selva boliviana. Da quel momento, sei stato un mio fratello, un mio pensiero dominante, il pane in tavola, l’esempio da seguire, il simbolo di chi combatte contro tutte le ingiustizie, per liberare i poveri dall’oppressione, per dare luce agli emarginati, agli invisibili, agli sfruttati. Hai sempre sentito sotto i tuoi talloni il costato di Ronzinante: e ogni volta ripartitivi, dove c’era da lottare, il primo, il più valoroso (...)


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