"Il calcio può migliorare il mondo". Intervista a Bruno Barba
Bruno Barba è ricercatore di Antropologia del Dipartimento di Scienze
Politiche – scuola di Scienze Sociali – dell’Università di Genova. Tra i vari insegnamenti, Antropologia dello Sviluppo, Antropologia del Meticciato, Antropologia
digitale nell’era dei social media. Studia da più di vent’anni il
meticciato culturale e il sincretismo religioso del Brasile. L’altra sua area
di ricerca è il calcio nei suoi significati antropologici di “fatto sociale
totale”. È tra i soci fondatori di Jacarandá, Associazione
Interdisciplinare Brasilianisti Italiani, che si occupa delle dinamiche che riguardano il
Brasile: religioni, emigrazione italiana e africana, problemi della traduzione
linguistica e culturale, processi di costruzione dello Stato e della Nazione, realtà
indigene, opera delle organizzazioni non governative. Tra le sue pubblicazioni: La 33esima squadra. Il sogno del Mondiale con 23 giocatori da sogno
(2010); Dio Negro, mondo meticcio (2013);
No país do futebol. Brasile 2014: il
calcio torna a casa (2014); Rio,
Ritratto di una città (2015); Meticcio.
L’opportunità delle differenze (2015); Calciologia.
Per un’antropologia del football (2016); San Paolo, Ritratto di una città (2017). Per Edit (Bologna) ha
tradotto Mitologia degli Orixá (2015)
di Reginaldo Prandi. È uscito
in queste settimane: 1958. L’altra volta che non andammo ai
Mondiali.
Sei uno studioso, un antropologo. La prima questione che volevamo porti
riguarda i motivi che ti hanno spinto a occuparti di calcio in maniera così
duratura e profonda.
“In realtà è il calcio che ha
scelto me. A parte gli scherzi, e a parte la passione, ho cercato di osservare il
calcio come decodificatore dei comportamenti umani. Il calcio giocato, vissuto
e... parlato. E devo dire che ogni giorno che passa mi convinco sempre più che sì,
il calcio racconta la storia, la formazione identitaria, la personalità, il carattere
tanto nella dimensione comunitaria quanto in quella individuale.”
Tutti conosciamo la passione brasiliana per il futebol, spontanea e giocosa. Cosa rappresenta questo sport per il
Brasile, per la sua cultura?
“Il Brasile, ha detto lo storico Fernand Braudel, rende intelligenti. Nel
senso che mostra in maniera palese, chiara, ingigantita quelle dinamiche che
appartengono a tutte le culture. Il Brasile meticcio mostra il suo calcio ‘reinterpretato’
con una forza persuasiva eccezionale. In questo paese tutto ciò che vien da fuori
viene ‘rimasticato’ – uso volutamente la metafora cannibale del Manifesto
Antropofagico del 1928 – e ripresentato come fenomeno nazionale. Il futebol ‘nasce’ così, da una
rielaborazione di quello britannico; lo stesso è avvenuto ovunque, ma in
Brasile, nelle várzeas, ovvero nelle
radure strappate alle foreste sulle rive dei fiumi, in maniera più eclatante
che non altrove.”
In particolare, da quello che abbiamo imparato dai tuoi libri, il
Brasile rappresenta quasi una sintesi di antropologia e calcio…
“In Brasile il problema dell’identità e sempre
stato assai sentito. ‘Chi siamo?’ si chiedono da sempre i brasiliani; ‘un po’
africani, europei, indigeni o cosa?’ I successi e gli insuccessi della Seleção hanno accompagnato
questo dubbio e questa domanda: da vira
latas, ovvero poveri uomini affetti da complessi di inferiorità, i brasiliani
sono passati a vivere con orgoglio estremo, perfino esagerato a volte, la loro
superiorità. Dovuta, a parer mio dall’arricchimento culturale e in parte
biologico che dà l’unione delle diversità. Il futebol samba, il futebol
arte, il futebol bailado dei
brasiliani ha un’eredità riconoscibile, unica, peculiare, indiscutibile.”
A livello mondiale, invece, il calcio può aiutare ad accelerare i processi di
integrazione, di meticciato culturale, magari in nome di una vittoria… o
prevale poi sempre la parte nazionalista, se non di gruppo ancora più
ristretto?
“Questo, è chiaro, dipende dalla società di riferimento. Il calcio è un ‘fatto
sociale totale’ che investe ogni sfera della struttura di riferimento. Un paese
razzista non può essere evoluto sportivamente, perché è attraverso
l’integrazione, il dialogo, il meticciato che si crea quell’amalgama
indispensabile al miglioramento. Francia, Inghilterra, Germania, Belgio,
persino Svizzera, per non parlare dei Sudamericani, l’hanno capito prima di
noi. Noi in Italia siamo indietro, assai. Il calcio anticipa, veicola,
trasporta valori di fratellanza. Ma da noi non c’è neppure lo ius soli…”
Tu riscontri nel Mondiale, nel rituale che rappresenta, il momento di “massimo
pregiudizio”, ma l’attuale “meticciato di fatto” di
molte squadre a cui hai appena fatto riferimento, può riuscire a far passare il
messaggio di una società multiculturale?
“Il pregiudizio alligna nella testa dei più
pigri, per non dire dei più stolti. Gli ultimi Mondiali sono stati in realtà il
trionfo dell’idea meticcia. Il Campionato del Mondo è un’occasione per
imparare, sempre, la storia, la geografia, la composizione sociale ed etnica
dei vari paesi. Speriamo di risparmiarci lo sconforto di leggere ancora titoli
del tipo: ‘La nostra nazionale sfida gli stregoni del vudù’.”
Paolo Sollier nell’intervista
al nostro blog ci ha parlato del tifo che, al netto dei tanti aspetti negativi,
è un fenomeno che socializza e organizza, uno dei pochi rimasti nel nostro
mondo contemporaneo frammentato e virtualizzato. Sei d’accordo? Se sì, come fare
per valorizzarlo?
“Il tifo è uno degli aspetti del calcio più
bistrattati, demonizzati e incompresi. Certamente è soggetto alle
generalizzazioni e approssimazioni che coinvolgono il mondo della comunicazione.
È ricco di umanità, valori, passioni certamente anche negative, ma soprattutto
straordinariamente positive. Ma si sa, si preferisce sempre tutto ciò che fa
notizia, che fa vendere, come la violenza. Poi a volte si parla di tifo, e
anche di calcio in generale, come fenomeni che dovrebbero essere delle isole
felici, in un contesto desertificato di valori. Il fatto è che se vivi in un
paese razzista e qualunquista, come potrebbero i tifosi essere totalmente
avulsi da queste logiche?”
Riprendendo una citazione di Gian Paolo Ormezzano hai scritto che a
raccontare il calcio possono essere i cantori o i pornografi. Ma se il racconto
pornografico egemonizza sempre più il modo di raccontare in che modo possiamo
opporci senza divenire una impotente minoranza?
“Imponendoci il diritto-dovere di parlare di
calcio. Non di dietrologie, di arbitri corrotti, di gossip o avvalendoci di fake news virali, o costruendo labiali
falsificati. Il recente postpartita di Inter-Juve è sintomatico. Perché si
perde, perché si vince, perché si gioca bene, la storia umana di un calciatore:
questo narravano i cantori. Io, se fossi responsabile di qualche rete
televisiva, radiofonica o di un blog, proporrei di fare piazza pulita, insomma,
di moviolisti e seminatori di odio. Ridiamo spazio ai poeti. Il calcio è
un’epica che merita narratori all’altezza.”
Nei tuoi libri analizzi diversi modi di esultare dopo un gol o dopo una
vittoria, per quale motivo?
“Mi è servito, questo esempio, per smontare l’idea che il corpo sia
esclusivamente natura. È molto più cultura: cosa ci sarebbe di istintivo nel
gesto di levarsi la maglia a ogni gol, facendosi ammonire, quando fino a venti
anni fa nessuno conosceva questa ‘moda’? Ci muoviamo, camminiamo, agiamo ed
esultiamo, a seconda dell’epoca – e del luogo – nei quali viviamo.”
I leader. Hai scritto di quanto siano importanti in uno sport collettivo
come il calcio. Quali ne sono le qualità più significative? Chi sono oggi quelli che
ritieni più rappresentativi?
“Il leader è colui che parla o agisce. Meglio quando riesce a fare tutte
e due le cose, ma grandissimi leader come Facchetti, Riva, Zoff o Scirea, non è
che parlassero molto. Nonostante quello che alcuni dicono, Gigi Buffon,
indiscutibilmente, è la figura principale di leader che ha avuto il calcio
italiano nell’ultimo ventennio.”
Nelle venti edizioni dei Mondiali realizzate hanno sempre vinto potenze
calcistiche, riuscirà
prima o poi a prevalere un outsider?
“La risposta che darebbe qualunque esperto di
calcio, proprio perché esperto, dovrebbe essere: non sappiamo. Credo sia
difficile, perché l’esperienza, specie nelle ultimissime partite, è
fondamentale. E la si costruisce, questa esperienza, facendo molte partite ad
alto livello, finché outsider non si può
più essere considerati. Vedi il caso della Francia, che non è nata grandissima,
o la stessa Argentina, che pure ha disputato la prima finale, nel 1930, ma fino
al ’78 non aveva vinto nulla; o della Spagna: quante delusioni hanno avuto,
prima di farcela. E l’Olanda, per fare un altro esempio, ha disputato già tre
finali, senza vincere una volta.”
Torniamo al Brasile. Nei due Mondiali realizzati in casa ha subito due
delle sconfitte più
clamorose della storia del calcio, il Maracanazo e l’incredibile sconfitta con
la Germania nel 2014. C’è una motivazione o si tratta semplicemente di un caso?
“Le vittorie hanno
mille padri, le sconfitte
pochissimi responsabili, anche in
Brasile. Nel 1950 si diede la
colpa ai neri Barbosa e Bigode (rigurgito di un razzismo che
sembrava stesse per scomparire), nel 2014 alla fragilità emotiva
di Thiago Silva
e David
Luiz e all’incidente subito
da Neymar. Ma se
parliamo di calcio,
nel primo
caso vi fu certamente
una sottovalutazione dell’avversario, nell'ultimo
Mondiale
la Germania era
più forte, passò subito
in vantaggio e la Seleção, che
subiva una pressione fortissima
si liquefece troppo
presto.”
I tuoi calciatori più rappresentativi della cultura calcistica del Brasile?
“Ah, questa è un’occasione che non mi lascio sfuggire per celebrare le
mie passioni. Garrincha, a alegria do
povo, il calciatore che fece di più sognare la gente per la sua maniera
poetica di interpretare il futebol; Sócrates, per il suo spessore umano e
politico, un vero hombre vertical; Raí,
il fratello di Socrates, che ho conosciuto personalmente – lo intervistai nel
1992 –e che mi trattò come se fossi un suo caro amico e infine Dunga sì, il
tanto bistrattato Dunga: non giocava alla brasiliana ma aveva un’intelligenza
superiore che gli permetteva di essere dovunque, in qualunque parte del campo,
correndo apparentemente alla velocità di un pensionato.”
I momenti dei Mondiali che ti sono rimasti scolpiti dentro e che
riaffiorano nella tua mente; in positivo o in negativo. Ce ne racconti qualcuno?
“ItaliaGermaniaquattroatre: si scrive tutt’attaccato, sempre. Ero
bambino, ero sveglio eccome, e quel grido “vinciamo, vinciamo” dell’operatore
accanto a Martellini me lo ricordo ancora da allora, e mi fa venire i brividi
ancora oggi, quando mi capita di riascoltare la telecronaca. Il gol di Tardelli
al Barnabeu, in ginocchio davanti al televisore con Schizzo che mi veniva
incontro ad abbracciarmi e mai più – lo sapevo e lo dissi allora, e i miei
amici se lo ricordano – avrei provato una gioia così pura, disinteressata e
totale, visto che avevo 21 anni; quella giornata al San Paolo per
Argentina-Italia, sospeso in un’atmosfera irreale, con gli argentini dietro di
me che facevano un fracasso infernale e ininterrotto, mentre il pubblico napoletano
non sapeva realmente per chi tifare, se per Diego o per gli azzurri; Italia-Paraguay
del 2010, ero in Benin, e gli africani seguivano eccome e con mezzi di fortuna
il ‘loro’ mondiale.”
La tua formazione ideale dei Mondiali di calcio di tutti i tempi?
“Ho scritto un libro che si intitola La 33esima squadra. Il sogno del Mondiale
con 23 giocatori da sogno; ma quella era una squadra di personaggi che ho
amato, dei veri pretesti narrativi, e non necessariamente i più grandi. La mia
personale e sempre opinabile scelta tecnica mi farebbe dire, scandendola come
di faceva un tempo: Buffon, Djalma Santos, Cabrini; Neeskens, Cannavaro,
Beckenbauer; Garrincha, Di Stefano, Cruijff, Maradona e Pelé. In panchina, tra
gli altri, Zoff, Scirea, Tardelli, Facchetti, Maldini, Baresi, Rivera, Ronaldo,
o fenomeno, e Cristiano, Messi e Gigi
Riva.”
Qual è il tuo rapporto col calcio? Come l’hai scoperto?
Lo giocavi anche? Se sì in che ruolo?
“Sempre giocato, certo. Da piccolo, in un enorme
campo che oggi è un immenso parcheggio, ad Alessandria. Il mio approccio è
stato così, interclassista, libero, partecipato, spensierato. Mio padre mi
accompagnava al Moccagatta di Alessandria. Più che le partite mi rimangono
impressi i polpacci lucenti di olio canforato dei calciatori, anche avversari,
che si riscaldavano nell’antistadio. Poi ho preso a giocare in squadre
giovanili e dilettantistiche, ero un mediano, con il numero 4 marchiato a
sangue sulla schiena. Correvo, aiutavo, oggi si direbbe, raddoppiavo. E facevo
diversi gol a campionato, sì.”
Il campo è
il centro dell’osservazione antropologica e il calcio non fa eccezione. Come
possiamo definire “il campo” oggi, essendo in un’epoca in cui questo
sport è vissuto quasi sempre attraverso il filtro mediatico? Come intervengono,
e influiscono, i media nell’assimilazione di questo sport da parte di tifosi e
appassionati?
“Giusta osservazione, ma ritengo sia un errore
prospettico quello di pensare più a quel che ruota intorno che al campo. Non
paia contraddittorio con quel che ho detto finora, ma proprio perché ‘fatto
sociale totale’, ritengo che nel campo ci sia tutto: il coraggio, la passione,
l’intelligenza, il rispetto, l’identità, la storia, la letteratura. Torniamo a
osservare il campo, leggiamolo ‘densamente’, tra le righe: là ci sta tutto,
davvero. Riscopriamolo, ecco.”
Di tanto in tanto, è accaduto anche pochi giorni fa in occasione di
Liverpool-Roma, si ripetono episodi di violenza prima o dopo le partite. Come
spieghi questo fenomeno? Quali le tensioni sociali alla base e come mai
finiscono per trovare espressioni così violente proprio in occasione di una
partita di calcio?
“Forse mi ripeto, ma le tensioni sociali, la
violenza, certi comportamenti non riesco proprio a collegarli con le dinamiche
sportive e calcistiche. Nemmeno con quelle identitarie, totemiche, di
appartenenza: per le strade cittadine, lontano o vicino allo stadio si compiono
reati che nulla hanno a che vedere con Salah, il Liverpool, De Rossi o la Roma.”
In che misura una lettura antropologica del calcio può aiutare a interpretare
la società contemporanea e quali sono gli stilemi, i fenomeni più pregnanti
attraverso i quali quest’ultima si specchia nel calcio attuale?
“Il linguaggio dei media; il comportamento dei
calciatori e quello dei tifosi; la trasversalità politica e sociale delle
curve; il rapporto calcio-potere; l’idea generale di sportività, e quelle del
senso del dovere e della responsabilità; il concetto estetico di calcio. Voglio
dire, questo sport è una ‘grammatica’: dimmi che calcio concepisci, che calcio
ti piace, e ti dirà chi sei.”
Nel confronto tra il calcio degli anni sessanta, settanta e ottanta e
quello successivo, fino ad arrivare ai giorni nostri, quali sono le differenze
che ti colpiscono di più
(avendo riguardo agli atteggiamenti di tutti i suoi protagonisti)?
“Troppo facile sarebbe dire che una volta il
calcio era più genuino, ruspante, e quindi vicino alla gente comune; ma questo
è parzialmente vero, poiché la rete oggi veicola informazioni, spunti e
sollecitazioni così frequenti e presenti da farci dire che il calcio, i
calciatori e le loro idee sono più a portata di mano che mai. I divi c’erano anche
allora, eccome. E non bisogna mitizzare sempre il passato: una volta il fattore
identitario, etnico e politico era ancor più accentuato: basti pensare a quanto
erano violente le curve negli anni settanta; a come fosse pacifico definire ‘negretti’
oppure ‘animaleschi’ i calciatori brasiliani; allo stesso linguaggio breriano,
infarcito di connotati e di rivendicazioni proto-leghiste.”
In molti casi il calcio fa emergere atteggiamenti riprovevoli che
vengono nascosti durante la vita quotidiana (violenza, razzismo); esiste forse
anche un’influenza esercitata da molti fattori che coesistono durante una
partita (la presenza di una moltitudine di persone divise in due schieramenti,
la mediazione del conflitto attraverso le insegne delle squadre, l’arbitro che
spesso viene odiato come rappresentante di un potere ingiusto) che può portare i tifosi ad
andare determinati confini?
“Il calcio aggrega, divide, ricompone come in un
caleidoscopio identità, fazioni e partiti, certo che sì. E poi, sugli spalti
interviene quella fenomenologia della massa che può accentuare comportamenti
non in linea, diciamo così. Ma attenzione: la mia modesta riflessione mi porta
a credere che nessun comportamento, che sia violento, razzista, maleducato potrebbe
verificarsi soltanto a causa dell’esasperazione, dell’eccitazione del momento.
Non dici ‘negro di merda’ o ‘devi morire’ perché sei allo stadio: se lo fai
soltanto in quell’occasione è perché nel resto della tua giornata attivi freni
inibitori. Il calcio, anche in questo caso, anche sugli spalti, è rivelatore di
quel che si è. È il momento della verità.”
Come giudichi i casi in cui i tifosi si uniscono, al di là di ogni divisione, in
nome di un valore comune? Ad esempio di recente, in occasione della morte del
giocatore della Fiorentina Davide Astori, si è registrato un cordoglio comune da
parte di tutte le squadre.
“Penso che, per una volta, il mondo del calcio
abbia saputo dimostrare il proprio orgoglio, la propria solidarietà, la propria
forza in una maniera peculiare, profonda, direi autoreferenziale. E questo
accade molto raramente: come ho detto in precedenza, credo sia difficile che un
settore della nostra società riesca ad astrarsi, isolarsi, distinguersi
rispetto al contesto in cui è immerso. Forse un miracolo?”
Quali potrebbero essere gli strumenti per avvicinare i tifosi di squadre
diverse, sdrammatizzare le contrapposizioni e favorire una fruizione del calcio
vissuta non solo in relazione alla vittoria propria e alla sconfitta dell’altro,
ma all'apprezzamento del bel gesto tecnico? Come passare nella dialettica del
tifo dallo scontro all’incontro?
“Ripeto: tornando a valorizzare il gioco, la storia delle squadre,
l’epica del confronto; proponendo l’insegnamento del calcio – giocato e
studiato – nelle scuole, come fattore di avvicinamento e preparazione al
meticciato culturale; ridicolizzando e cancellando, una volta per tutte, l’idea
che, per forza di cose, palpitare per una squadra significhi soprattutto ‘tifare
contro’. Quest’ultima posizione, diciamolo una volta per tutte, è semplicemente
da invidiosi, da frustati e non ha niente a che vedere con lo sport.”
L’esistenza di gruppi di tifosi organizzati coincide, da quarant’anni a questa parte con
una simmetrica mancanza di partecipazione alla politica. C’è una relazione tra
la progressiva crescita di impegno nel tifo e quella, parallela, del disimpegno
politico?
“Non credo in termini così diretti e meccanici. L’allontanamento dalla
politica dipende certo da tanti fattori e non vedo questo travaso di… passione.
Anzi, conosco tantissimi ragazzi che nel frattempo si sono allontanati anche
dal tifo calcistico, che si sono ‘disamorati’, per così dire. E questo mi
spiace assi perché questa visione ‘apocalittica’ è indice soprattutto di una
mancata attenzione per la ricchezza e densità del fenomeno calcio. Che non è
soltanto marketing, potere, economia, business.”
Com’è
cambiato il ruolo della donna nel calcio sia italiano sia mondiale?
“Tantissimo. In Italia, al di là di un
maschilistico apprezzamento per il ruolo di valletta o di giornalista – anche
quando alla donna viene riconosciuta una competenza specifica – , senz’altro
meno che altrove. Facile scoprire il perché: qui manca il riconoscimento per la
pratica sportiva del calcio femminile, visto ancora come uno sport per soli
uomini.”
Calcio e omosessualità. A fronte di una sua progressiva accettazione dell’omosessualità
sia in ambito sociale, giuridico e culturale, che caratterizza la società contemporanea,
qual è l’atteggiamento del mondo del calcio?
“Ancora straordinariamente conservatore.
Difficile, o forse no, cogliere le ragioni di questo atteggiamento. Ma qui
torniamo ancora al discorso di ‘fatto sociale totale’: qui da noi è lecito dire
ancora ‘meglio fascisti che froci’, no? Immaginiamo allora come reagirebbero
gli haters se un calciatore facesse outing.”
Garrincha, Maradona, Gigi Riva. Quali sono i campioni del passato che ti
sono rimasti più nel cuore e quali quelli del presente?
“Quelli che ho amato di più sono Pietro Anastasi,
siciliano e juventino, il mio idolo di bambino, nato nel mio stesso giorno, il
7 aprile; Marco Tardelli, il campione al quale mi sarebbe piaciuto somigliare e
al quale cercavo di ispirarmi quando giocavo; Gigi Riva per il coraggio di
calciatore e di uomo, Maradona per il piglio, il carattere, la capacità
seduttiva del trascinatore… Ma sono troppi i campioni che ho amato, non
basterebbero migliaia di pagine a completare l’elenco.”
Se il mondo fosse un pallone, oggi come e dove dovremmo calciarlo?
“Come? Con attenzione, delicatezza, precisione. Accarezzandolo. Perché è
troppo bello, importante prezioso per essere maltrattato, come fanno ancora
certi difensori centrali… Dove? Verso il cielo. Perché il calcio è sogno, e il
mondo dei sogni sta lassù.”
(maggio 2018)
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